Ad agosto 2020 il ministero della Salute ha diffuso le nuove linee guida che di fatto hanno eliminato l’obbligo di ricovero e autorizzato la somministrazione al di fuori degli ospedali. Ma ad aver applicato le nuove raccomandazioni sono pochissime Regioni. E non senza difficoltà: mancano personale, competenze e un maggiore uso della telemedicina
È passato un anno dalla circolare del ministero della Salute che ha eliminato (di fatto), anche in Italia, l’obbligo di ricovero per l’aborto farmacologico. Ma finora è cambiato poco o niente. Le nuove linee di indirizzo, pubblicate ad agosto 2020, hanno segnato un passaggio importante: hanno spostato il limite per l’uso dei farmaci da 7 a 9 settimane di gestazione e consentito la somministrazione in ambulatorio o consultorio. Al momento però, solo tre Regioni hanno iniziato ad attivarsi (Toscana, Lazio e presto Emilia-Romagna), per il resto rimangono parole sulla carta. Eppure l’aborto farmacologico è raccomandato per gli aborti precoci (entro le prime 12 settimane di gestazione) nelle linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità, che nel 2005 ha incluso mifepristone e misoprostolo nella lista dei farmaci essenziali per la salute. In Italia si è cominciato a parlarne nel 1989 per iniziativa della socialista Elena Marinucci, ma è stato introdotto solo nel 2009 e con forti limitazioni. Mancano i medici, le competenze e le volontà. E anche se, in molti casi, l’aborto farmacologico potrebbe permettere di arginare gli effetti dell’obiezione di coscienza e decongestionare gli ospedali, il sistema sanitario italiano continua a non volerci puntare davvero. Oggi 28 settembre, in occasione della Giornata internazionale dell’aborto legale e sicuro, ilfattoquotidiano.it pubblica l’inchiesta sullo stato dell’aborto farmacologico in Italia.
Leggi tutto l’articolo su www.ilfattoquotidiano.it (28 settembre 2021)
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