L’appello per la de-ospedalizzazione è della rete Pro-choice, rete italiana contraccezione e aborto. La procedura farmacologica in ambulatorio per l’aborto volontario potrebbe alleggerire gli ospedali e limitare il rischio di contagio, ma servono provvedimenti regionali e nuove linee guida per la somministrazione del farmaco. Finora l’Italia è andata nella direzione opposta
De-ospedalizzare l’aborto farmacologico, autorizzando la procedura nei consultori e negli ambulatori attrezzati come già previsto dalla legge 194/78, e spostare il limite per la somministrazione dalle 7 settimane di gravidanza attuali a 9, come nel resto d’Europa e come previsto dalla Agenzia europea del farmaco. Lo chiede Pro-choice, rete italiana contraccezione e aborto, per ridurre gli accessi in ospedale e il rischio di contagio da coronavirus, favorendo l’accesso ad una pratica medica che nel nostro Paese è ancora sottovalutata se non apertamente ostacolata: la percentuale di aborti farmacologici rispetto al totale delle interruzioni volontarie è attualmente del 17,8%, contro il 97% in Finlandia, il 93% in Svezia, il 75% in Svizzera, il 67% in Francia. E se, in queste ore di emergenza sanitaria, ci sono Stati come il Texas e l’Ohio che hanno incluso l’aborto tra gli interventi medici non essenziali e che devono essere rinviati, in tante altre nazioni il rischio è che il diritto all’aborto non riesca a essere tutelato. Così anche in Italia, dove il ricorso all’aborto farmacologico potrebbe in parte risolvere il problema.
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