Non dare nulla per scontato e mettere in conto testimonianze e momenti spiazzanti. È quanto mi sono ripromessa di fare per l’inchiesta sull’aborto. La conversazione con Luigi Canepa, ginecologo all’Ospedale di Sanpierdarena di Genova, è stato uno di quei momenti spiazzanti.
Mi rivolgo a lui su indicazione della Cgil regionale ligure, di cui è coordinatore per l’area medica. Quando “lo incontro” al telefono do per scontato di avere a che fare con un ginecologo non obiettore e la prima parte dell’intervista sembra confermarlo. Mi spiega infatti che “a Genova, aimè, non tutti gli ospedali garantiscono la 194”. Il Galliera (convenzionato, gestito dalla Curia) e il Gaslini (istituto di ricerca!) non fanno interruzioni di gravidanza e ora il Galliera “si è tolto anche la fecondazione assistita”. Quelli che garantiscono il servizio IVG sono i tre ospedali pubblici: l’Evangelico, San Martino, Villa Scassi a Sanpierdarena, dove “se ne fanno molte”. I consultori liguri, assicura, danno “le informazioni necessarie perché le donne possano esigere i loro diritti”.
Mi spiega che nel suo ospedale non ci sono liste d’attesa per l’IVG e che nessuna delle donne che si presentano all’ambulatorio di accettazione viene mandata via. “Ma come, non avete il problema dei posti letto?”, chiedo. Qui comincia la parte interessante. Non hanno questo problema, dice, perché delle 600-650 interruzioni volontarie di gravidanza all’anno quasi il 60% è un aborto farmacologico. “Con gran vantaggio della donna”, aggiunge. Siamo al telefono perciò non mi vede mentre sgrano gli occhi, ma la sorpresa nella mia voce è manifesta.
La percentuale nazionale di aborto farmacologico è dell’8,5%, quella ligure del 25% (v. Relazione 2014). Com’è possibile che all’Ospedale a Sanpierdarena di Genova si arrivi al 60%? Merito di precise scelte organizzative:
- a tutte le donne che si presentano entro la 7° settimana viene fatto un certificato di urgenza, con cui si evita la settimana di attesa prevista dalla legge 194. Ricordiamo infatti che l’Agenzia italiana del farmaco permette la somministrazione della Ru486 entro la 7° settimana (per l’Agenzia del farmaco europea è la 9°)
- benché le linee guida prevedano il ricovero ospedaliero di tre giorni (non per l’Agenzia europea, solo per quella italiana), alle donne è chiesto di firmare il consenso informato così che possano andare a casa dopo l’assunzione della prima pillola e tornare in day hospital il terzo giorno per la seconda pillola.
Queste due pratiche, che con voce amara il medico definisce “escamotage”, derivano, dice, dalle scelte del legislatore che è stato “punitivo verso le donne che vogliono abortire”, imponendo “regole che ricadono sulle spalle dei medici e delle donne stesse”.
Una terza scelta organizzativa è determinante:
- la pillola abortiva viene garantita tutti i giorni della settimana, comprese le feste comandate, e, dice Canepa, “anche noi medici obiettori somministriamo l’aborto farmacologico”.
A questo punto lo spiazzamento è duplice. Primo, non avevo previsto che ginecologi obiettori si occupassero di aborti farmacologici. Secondo, non mi sarei aspettata sentir dire “noi obiettori” da un medico che parla di una donna che abortisce come di una che sta “esigendo un suo diritto”. Per essere sicura di avere sentito bene, glielo chiedo. “Ma lei è obiettore?” Canepa conferma e sottolinea che “c’è clima di collaborazione tra tutti quanti noi”, che “sia gli obiettori che i non obiettori fanno lavoro di squadra in modo tale da dare un servizio alla paziente, tanto è vero che le pazienti non si accorgono di chi è obiettore e chi non lo è, siamo interscambiabili”. Per avere certezza di queste affermazioni dovrei raccogliere altre voci, ma la mia impressione è che sia sincero.
Chiedo se questo tipo di organizzazione possa diventare un modello. Lo sarebbe, “se ci fosse la buona volontà dei soggetti e del primario”. Poi cerco di andare più a fondo sulla sua scelta di obiezione. I conti non mi tornano proprio, perché nel frattempo il dottor Canepa ha cominciato a rilasciare dichiarazioni sul fatto che “purtroppo non siamo in uno Stato laico” e che certe cose non si possono toccare, “come la mamma”. Non è obiettore per menefreghismo e neanche per motivi religiosi, è evidente. Gli chiedo perché, dunque. Qui la voce esita. Una flessione del respiro lascia intravedere imbarazzo, come una persona che si stia scusando. “Per un po’ di tempo sono stato non obiettore. Poi devo dire che … non ce l’ho più … fatta”. E subito aggancia l’argomento della prevenzione, di come al momento dell’obiezione di coscienza si sia impegnato per “l’innalzamento culturale” e i corsi di educazione sessuale nelle scuole.
Ho la sensazione di essermi avvicinata ad una zona sensibile e non me la sento di forzare o di insistere sui motivi “di coscienza”. Mi sembra anche che abbiamo toccato uno snodo importante e che questo strano obiettore mi abbia messo davanti a qualcosa di imprevisto, su cui ho bisogno di riflettere. Forse richiamerò una seconda volta Luigi Canepa, per approfondire l’argomento.
La testimonianza ha parecchi punti d’interesse, vi invito a leggerla. Ne riprendo in questa sede ancora un argomento.
Sottolinea Canepa come la capacità di una struttura di applicare la legge 194 e di garantire l’accesso all’aborto volontario non rientri nei marcatori considerati nella valutazione qualitativa degli ospedali: “normalmente sentirà dire quello è un buon reparto perché lì fanno 1500 parti, se uno dicesse che fa 700 aborti verrebbe visto male, come se fosse una vergogna”. “Voi lo dite?”, gli chiedo. “Sì, ma non ci fila nessuno”. E aggiunge: “si guarda sempre agli obiettori, ma poi è il legislatore in primis a promuovere la cultura dell’obiezione: sei bravo se fai tot numero di parti, ma non sei bravo se fai tot di interruzioni di gravidanza”. Un punto su cui interrogare il ministero e la comunità scientifica.
Immagine dalla mostra di mailart “Alt, il corpo è mio”
http://www.women.it/oltreluna/artepolitica/altilcorpoemio/img/baudino%20elisabetta.jpg
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